Filtro antiparticolato inutile

I filtri antiparticolato finiscono nel mirino di Codacons che fa causa alla Regione Lombardia per due delibere che ne incentivano l’installazione sulle auto con motori a gasolio. Secondo l’associazione consumatori i dispositivi per abbattere le emissioni di polveri sottili  renderebbero ancora più pericoloso il particolato poiché ridurrebbero le emissioni “grossolane” a livelli ancora più piccoli e più facilmente assimilabili dall’organismo. A giudizio di alcuni esperti il particolato di dimensioni micro-metriche è in grado di penetrare più profondamente nel corpo con maggiori difficoltà per la sua eliminazione.

“Il Codacons mi sembra un covo d’ignoranti, è il solo a non sapere che i filtri antiparticolato sono l’unico ritrovato ultramoderno in grado di abbattere le polveri sottili”, commenta Roberto Formigoni, presidente della Regione Lombardia. Il giudice di Milano, Laura Massari, ha già sentito  le parti nel febbraio del 2011 , ma non si è ancora pronunciato.

La questione è complessa soprattutto perché sia gli effetti a lungo termine dell’uso dei filtri antiparticolato sull’inquinamento (adottati per primi dal gruppo francese Psa Peugeot Citroën nel 2000 con il nome di “filtre à particules”, Fap, mentre successivamente sono stati introdotti da altre marche i Dpf, “diesel particulate filter) sia le ripercussioni sulla salute del particolato sono oggetto di studio. I filtri imprigionano ed aggregano il particolato dei gas di scarico frutto della combustione e, periodicamente, li bruciano.
Per particolato (o polveri sottili) si intende comunemente “l’insieme delle sostanze sospese in aria (fibre, particelle carboniose, metalli, silice, inquinanti liquidi o solidi)” la cui origine è anche naturale (pollini, spore, erosione delle rocce e via dicendo).  Quello inquinante ritenuto particolarmente dannoso nelle aree urbane è composto da tutte quelle particelle solide e liquide disperse nell’atmosfera, con un diametro che va da pochi nanometri fino ai 500 micron.

Le polveri pericolose sono tuttavia perlopiù legate alle attività umane e derivano dalle emissioni della combustione dei motori a combustione interna (autocarri, automobili, aeroplani) e del riscaldamento domestico (in particolare gasolio, carbone e legna), dai residui dell’usura del manto stradale, dei freni e delle gomme delle vetture, dal fumo del tabacco, dagli inceneritori e altro ancora. È stato calcolato che le sorgenti naturali contribuiscono per il 94% del particolato. Negli agglomerati urbani, però, questa incidenza cambia, anche a seconda della stagione.

Secondo l’Agenzia per la protezione dell’ambiente (dato 2003), la produzione di Pm10 non naturali in Italia deriverebbe per il 49% dai trasporti, per il 27% dall’industria, per l’11% dal settore residenziale e terziario. Per l’Aci, sul totale delle emissioni di Pm10 in Italia il 29% sarebbe a carico dagli autoveicoli a gasolio.
Le leggi italiani prevedono limiti solo per le Pm10, non su particelle più sottili chiamate anche particolato ultrafine. Il particolato “grossolano” (di dimensioni superiori ai 10 µm) non è in grado di penetrare nel tratto respiratorio superando la laringe, se non in piccola parte. Invece, le Pm10 (cioè ancora più piccole, inferiori ad un centesimo di millimetro) sono inalabili, cioè capaci di arrivare al tratto respiratorio superiore (naso e laringe). Le particelle fra circa 5 e 2,5 µm si depositano prima dei bronchioli. Le Pm2,5 penetrano addirittura profondamente nei polmoni, riuscendo a passare direttamente dall’alveolo polmonare alla circolazione sanguigna.

Tra i disturbi attribuiti al particolato fine e ultrafine (PM10 e soprattutto PM2,5) vi sono patologie acute e croniche a carico dell’apparato respiratorio (asma, bronchiti, enfisema, allergia, tumori) e cardio-circolatorio.

Nel suo rapporto “Mal’aria 2011”, Legambiente sostiene che, in Italia, oltre 15 persone ogni 10.000 abitanti muoiono prematuramente per colpa delle polveri sottili. L’Organizzazione mondiale della sanità, invece, sulla base di uno studio condotto nel 2000 in 8 città del mondo, stima che siano responsabili dello 0,5% dei decessi registrati nell’anno.

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